La sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica

DI FEDERICO DI VITA

Un giorno a Gerusalemme, ai piedi del Muro del pianto, in poco meno di un’ora fui colpito per due volte dalla sindrome di Stendhal. Io stesso avrei considerato l’episodio irripetibile fino a qualche anno fa, se non fosse che mi è capitato di ritrovarmi in esperienze in grado di farmi vivere queste sensazioni per venti volte in una sola nottata. Mi è successo tutte le volte che ho partecipato a dei festival psytrance, dove tutto ciò capita non solo grazie alla musica (che è certamente un’arte) ma anche per tutta quella che è lecito considerare una complessa e stratificata forma di Gestalt immersiva, pensata per essere esperita in stati alterati di coscienza.

Secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani la sindrome di Stendhal è:

Quel «complesso di manifestazioni di disagio e sperdimento psichico conseguenti a una forte esperienza emozionale subita, in particolare, da visitatori di centri storico-artistici dove più forte e caratterizzante è il contesto culturale. La definizione della sindrome è stata fatta in rapporto a quanto lo scrittore francese Stendhal scrisse dopo essere stato in visita alla chiesa di Santa Croce in Firenze, descrivendo il proprio stato emotivo conseguente alla particolare esperienza da lui provata nel visitare il luogo e gli ambienti della chiesa stessa. L’analisi della sindrome ha messo in evidenza le complesse interazioni psicosomatiche che possono attivarsi in alcuni individui, con particolari condizioni psichiche predisponenti, quando il contesto ambientale favorisce gli aspetti di sradicamento rispetto alle proprie abitudini di vita». 

Della sindrome di Stendhal sono state riconosciute alcune declinazioni, come la sindrome di Gerusalemme (quella che pare aver colpito me), caratterizzata dall’insorgere di sentimenti religiosi e da un impulso di proferire espressioni visionarie (ho saputo trattenermi); la sindrome  «indiana» descritta da Regis Airaud; o quella di Parigi. Simili episodi, studiati in ambito psichiatrico come veri e propri quadri clinici, hanno in comune uno scompenso psichico acuto, che si verifica solitamente nel corso di un viaggio, in luoghi e ambienti particolarmente suggestivi e in grado di provocare forti reazioni emotive.

In “Mi sono innamorato di una statua” la psichiatra Graziella Magherini descrive nel dettaglio quelli che chiama «episodi di sofferenza psichica» riscontrati in 106 turisti in visita a Firenze. I casi analizzati dall’autrice non sono manifestazioni tipiche di uno specifico disturbo ma comprendono diverse aree della psicopatologia (spaziando da quella psicotica alla nevrotico-dissociativa). Nella maggior parte dei viaggiatori infatti i sintomi si manifestavano in un ventaglio di reazioni che comprendevano attacchi di panico, tachicardia, capogiri, vertigini, confusione, crisi depressive o, al contrario, esaltazione e pensiero onnipotente, euforia e manifestazioni di estasi. Alcuni turisti presentavano disturbi del contenuto e della forma del pensiero, riportando intuizioni deliranti accompagnate da un’alterazione delle percezioni sensoriali, declinate in allucinazioni uditive e illusioni ottiche. Questi episodi sono caratterizzati da una rottura dell’equilibrio fornito dagli usuali meccanismi difensivi della psiche (probabilmente legati a una temporanea inibizione del Default Mode Network), durante i quali è possibile il riemergere di contenuti mentali scissi. Nella sindrome di Stendhal entrano in gioco, insomma, vari fattori, che vanno dalla predisposizione emotiva dell’individuo, al viaggio come destabilizzazione dei consueti parametri culturali, all’impatto con l’arte, fino all’evocazione di rimossi, che può trovare espressione in sentimenti di depersonalizzazione o derealizzazione. Tutto considerato, per quanto occasionale, rapida e non clinicamente preoccupante, la sindrome di Stendhal non è necessariamente piacevole, dipende dalla complessione individuale del soggetto a cui capita: chi non teme di perdere momentaneamente il controllo delle redini del suo panorama psichico-sensoriale può godere a pieno della metamorfosi che avviene durante la fruizione di un’opera d’arte e vederla detonare in una breve apoteosi estatica. Ma non è detto che vada in questo modo per tutti. 

Premesso ciò, proverò a sostenere questa tesi: nei festival psytrance va riconosciuta una particolare forma di opera d’arte, stratificata e immersiva, che offre la possibilità di esperire lo stato mentale descritto dallo scrittore francese in visita a Santa Croce. Per sostenere che i festival psytrance sono una compiuta forma d’arte – qualcuno potrebbe dirsi in disaccordo – risponderò via via ad alcune obiezioni, come quelle di chi ritenesse troppo personale la natura delle visioni per farne un parametro oggettivo o di chi notasse che si può ammirare in stato alterato anche l’arte museale. Prima però credo sia necessario raccontare cosa si prova in situazioni di questo tipo: alle spalle di un amico si scorge una medusa azzurra, dotata di una flessuosa opalescenza. A quel punto gli si domanda di voltarsi e di dirci se la vede anche lui, se è davvero una medusa. È proprio una medusa, risponde quello, o meglio è una tizia che sostiene un festone luminoso irradiato da led che ha la forma di una medusa. Un attimo dopo ci si addentra in un bosco all’interno del quale è montato un sound avveniristico, i cui raggi violacei illuminano il profondo della selva. Siamo in un locale della Berlino del 2300 nel centro di una foresta, che pompa musica aliena. Il terreno pullula e la vegetazione si rigenera incessantemente: da un singolo stelo di garofano di montagna si moltiplicano infinite foglie lanceolate, le nervature si allungano tremolando e lo sbuffo di fiori fucsia danza come una fiaccola accesa. Ogni ago di abete ne genera un mazzo di altri, ogni foglia si decuplica, ogni ramo freme a tempo. Alzando lo sguardo riconosco due piramidi di quarzo cangiante, uno dei due totem è immerso in un cespuglio di sambuco rosso, afferro un grappolo dei piccoli fiori, vedo per la prima volta che ogni calice ha cinque denti e piccolissime antere gialle. Entro nello spazio tra i due triangoli luminosi e capisco che costituiscono un portale. Appena varcato ecco qualche fragolina di bosco e una pianta di belladonna, i cui fiori sono sorretti da cinque sepali in cui si aprono campanule di un blu tenue. Scendo lungo una scalinata disegnata dalle radici dei faggi, delle liane sembrano spingermi verso il fondo di una angosciante fiaba oscura. L’attrazione della foresta è invincibile, scendo ancora e un’altra musica, più cupa, prende il posto della psytrance, un ronzio sordo e ritmato mi chiama come il canto di una sirena. Mentre avanzo fasci di luci violette si abbattono su di me, sul mio volto, sulle mie mani, sui tronchi che ho intorno, sul fondo del bosco tra i fusti dei faggi più giovani e sul corpo isolato di quelli più maturi, i raggi di colore evidenziano le chiazze chiare del legno, che pulsano, poi la luce continua, proiettandosi più a fondo nell’intrico silvano. Le macchie di muschio spiccano come spugne su un fondale tropicale. Piccoli fasci di tronchetti si fanno braccia di scleractinia, gli spazi profondità marine, i raggi viola ora sono quelli del sole che si proiettano nell’acqua alla ricerca dell’abisso. Alcuni cespugli diventano coralli a cervello aperto, la fessura tra due faggi le fosforescenti valve di una conchiglia gigante di una laguna polinesiana, il fremere delle infinite foglie argentate è quello di uno sterminato banco di pesci. Mi accascio su un pianoro, la barriera corallina è interrotta da una piramide lucente, un prisma arancione che brilla come un topazio esplodendo di luce dall’interno, è la plancia del dj, qualche metro dopo, sovrastato da un’onda azzurra, il banco dei beveraggi. Sotto di me, il muschio soffice e il terriccio della foresta, respirano. Il viluppo dei rami sulla mia testa mi inchioda al suolo, nel cielo ramato lunghe scie segnano traiettorie opalescenti, le più grandi rivelano i percorsi degli squali. I banchi di foglie più alti sono oscure costellazioni di meduse opaline, così dettagliate che riesco a riconoscerne la specie: Pelagia nocticula trascinate da una lieve corrente. Di colpo si levano nell’aria spruzzi di luce e si ode inconfondibile il profondo respiro di una balena. Di lì a poco il mare è uno zampillare di fontane di fuoco e bestie enormi, dai fianchi luminosi, che sollevano la testa sul pelo dell’acqua mandando scintille. Una volta allontanatesi, ecco che un grumo più denso rivela la sua natura di ammasso di sargassi, ancora sopra passa un’ombra (una nuvola?): è la nave degli Argonauti che solca per la prima volta i flutti primordiali. Sento distillati nella mia mente i battiti della creazione, partecipo dell’impulso universale, apro ogni canale immettendo ogni stilla della mia aura nel superiore flusso esistenziale, ne sono parte. Privo di identità personale. Mi fondo col fondo del bosco in un amplesso estatico, non penso a niente, sottratto a ogni contingenza mi concentro in pura pulsione vitale. Passa un tempo indefinibile, la festa intorno continua frenetica.

Posso descrivere davvero ciò che si prova durante un’esperienza del genere? Ne dubito. Naturalmente un ingrediente fondamentale sono quelle che nella Scommessa psichedelica Chiara Baldini ha chiamato molecole gourmand, sono loro la fonte della visione e questo – per chi non ha problemi a trovarsi in mezzo a una folla – è un contesto perfetto per compiere immersive esperienze psichedeliche: il setting è pensato appositamente per tale scopo, più o meno tutti i partecipanti condividono lo stesso stato (il che crea una diffusa e fondamentale comunione di propositi e «vibrazioni») e c’è sempre un presidio medico pronto a soccorrere chi ne avesse bisogno (un dettaglio non di poco conto: un sostegno medico manca sempre, ad esempio, nel caso delle assunzioni domestiche o comunque private, che erroneamente possono essere ritenute più prudenti – senza contare che i rischi aumentano nel caso dei consumatori che tendano a sommare gli effetti delle sostanze psichedeliche con quelle degli stimolanti e dei superalcolici).

Tornando al setting, prevengo la prima delle obiezioni: se nel folto del bosco io riconosco l’incanto brulicante di un reef, qualcuno potrebbe pensare che sarò il solo a godere di una simile visione. Data l’alta suggestionabilità connaturata alla lisergia l’obiezione è, in parte, falsa: nel momento in cui indicassi a un amico il corallo a cervello aperto che scorgo in un cespuglio, immediatamente lo vedrebbe anche lui – ma al di là di ciò ciascuno prova analoghe e totalizzanti sensazioni, e poco importa se non combaciano: l’arte non parla personalmente a ciascuno di noi? In più (altra obiezione), si potrebbe pensare che tutto ciò accadrebbe anche immergendosi nella natura, in assenza della festa – ma non è vero neanche questo, o meglio: non accadrebbe in questo modo, della festa mancherebbe tutto: le persone, le luci, la musica e l’atmosfera.

Non conosco interpretazioni critiche che presentino i festival psytrance come grandi installazioni artistiche, è per questo che mi dilungo in contro-obiezioni fattuali. L’idea che la cultura rave sfrutti quella che si può definire riproducibilità tecnica dell’esperienza estatica (o mistica) merita un approfondimento proprio perché in alcune circostanze il tipo di ammirazione che la calibrata combinazione di questi elementi riesce a sprigionare è quel che talvolta si prova al cospetto delle più raffinate opere d’arte.

Non dico che chi organizza i festival, monta gli stand, le tensostrutture sorrette da cattedrali di tiranti in canna di bambù, i teli colorati con motivi geometrici (non di rado immagini sincretiche e kitsch) che le coprono per decorarle in un tripudio di frattali di notte e fornire un po’ d’ombra di giorno, chi suona la musica, chi impila le casse in modo che emanino potenza, bassi profondissimi e un suono tridimensionale, sia il manipolo di più grandi artisti viventi. Né al contrario intendo sostenere che per ammirare l’arte sia preferibile una condizione di alterazione percettiva (tutt’altro, ci tornerò più avanti); ma che durante questi particolari happening, la cui organizzazione si è raffinata nel corso di decenni e in cui anche dettagli apparentemente insignificanti concorrono all’apoteosi notturna, si può provare un senso di spaesamento, analogo alla sindrome di Stendhal. Questo accade per una durata non paragonabile a quella degli altri tipi di contemplazione artistica (anche quando questi avvengano a un livello perfetto di comprensione culturale e comunione con le opere). E anche se l’obiettivo dell’arte non è necessariamente quello di innescare l’estasi, è anche vero che quando l’estasi si manifesta si è certi di essere in presenza di opere di grande impatto.

In un articolo uscito su Esquire Gianluca Didino nota come «Tutte le culture musicali sono anche “drug cultures”, dagli oppiacei del jazz alla marijuana del reggae e del dub, ed è significativo che molti generi musicali arrivino prima o poi a personificare la propria droga d’elezione come un’entità senziente, spesso di sesso femminile, che manipola chi ne fa uso (Heroin dei Velvet Underground, Cocaine di Clapton, Your Only Friend di Phuture). Ma poche scene come quella rave hanno investito la droga del ruolo di “manipolatore occulto” e divinità: buona parte di quella musica è stata a tutti gli effetti composta dall’ecstasy» – e tutto ciò è vero, anche se nel caso della psytrance le sostanze «manipolatrici» vanno individuate negli psichedelici (come dice anche il nome).

Per il critico d’arte del New York Times Ken Johnson lo scopo dell’arte contemporanea non è più quello di creare oggetti esteticamente rilevanti ma di fornire esperienze in grado di dialogare con la coscienza degli spettatori. È esattamente ciò che accade in questi contesti, che si configurano come forse il più alto (e misconosciuto) filone di arte concettuale in epoca contemporanea. Che l’arte comprenda nel suo ventaglio di linguaggi le esperienze immersive è ormai un dato acquisito, prendo come esempio un altro passaggio di Are You Experienced? dello stesso Johnson:

«New York, 1965. Sei in una galleria d’arte dove non c’è altro che una griglia di lastre di metallo quadrate di circa trenta centimetri distese sul pavimento come un tappeto a scacchi. Qualcuno ci cammina sopra – è consentito – così anche tu calpesti la noiosa superficie metallica. Questa è una novità: una scultura in cui puoi entrare. Ma è anche noioso. Ora immaginati in uno stato mentale insolitamente aperto e ricettivo. Immagina di aver fumato una canna prima di avventurarti a vedere cosa c’è nelle gallerie.

In botta può succedere qualcosa di strano e magico. Inizi a sintonizzarti sulle sottigliezze della situazione. L’arte, ti rendi conto, non è solo qualcosa di piacevole da guardare. Non deve essere in una cornice o su un piedistallo. È nel tuo spazio, sotto i tuoi piedi, e tu sei nel suo spazio. Ti avvolge. Non sono solo queste piastre metalliche e la loro disposizione a costituire l’arte. Tutto ne fa parte, compresa l’aria che respiri, la luce che rende visibile il mondo, il battito del tuo cuore, le volute dei tuoi pensieri. Non vi è alcun riferimento a nulla oltre questo momento e questo spazio. Nulla è dipinto o rappresentato in qualche altro modo. Forse stai capendo ciò che insegnano i maestri zen: essere qui e ora, non turbato da idee seccanti, preoccupazioni, fantasie che ti fanno desiderare sempre di essere altrove».

L’aneddoto di Johnson mi è utile per illustrare un dato di fatto conclamato, l’esistenza risalente (almeno) agli anni ’60 di opere d’arte di questo tipo, cui si combina l’intuizione del critico di fruirle in uno stato alterato di coscienza. Il parallelo più  immediato tra i festival psytrance e l’arte contemporanea, mi porta infatti a pensare agli ambienti immersivi che, da Fontana a Dubuffet alla Optical Art, fino ad arrivare ai più recenti esperimenti con la realtà virtuale, sono stati e sono uno dei trend dell’arte concettuale dagli anni ’60 a oggi. Anche in quel caso si accede a degli spazi isolati – di solito delle piccole stanze – in cui l’esperienza dell’osservatore è stimolata a diversi livelli sensoriali, oltre alla vista è chiamato in causa l’udito, per mezzo di installazioni sonore, e talvolta perfino l’olfatto. Inoltre spesso questi spazi tentano di creare illusioni ottiche o di provocare sensazioni vertiginose, tramite fughe di specchi contrapposti o magari per mezzo di motivi geometrici ripetuti concentricamente; provando così a indurre una percezione lievemente alterata dell’ambiente. Si segue in fondo un meccanismo analogo a quello proposto dai dance floor dei festival, che per me costituiscono l’opera più rappresentativa del Rinascimento psichedelico.

Tra ambienti immersivi e festival psytrance sussistono tuttavia differenze sostanziali, non inferiori a quelle che potrei indicare per rispondere a chi pensasse che per ottenere lo stesso risultato sarebbe sufficiente ammirare in acido l’arte museale (ecco un’altra obiezione da sfatare). Una serie di interessanti osservazioni in merito sono contenute in The Museum Dose di Daniel Tumbleweed, un volumetto in cui lo scrittore americano descrive le visite a dodici centri espositivi di New York compiute sotto l’influenza di dodici diverse sostanze psicotrope. Nella sua descrizione le visite museali condotte in tali stati di alterazione finiscono per diventare memorabili e cariche di significato, sebbene, come è lecito attendersi, una vasta serie di elementi che esulano dalla volontà di rappresentazione delle opere tendano ad affiorare alla mente di un osservatore che le contempli in tale stato. Esperienze del genere possono rivelarsi di straordinaria intensità ma in quel caso le opere, che non sono state pensate né disposte per essere ammirate da un osservatore alterato, non mancheranno di farlo notare. Potrebbero diventare troppo intense, o potrebbero emergere in modo soverchiante elementi non centrali, come il dato sociale (anche ove fosse solo accennato), o gli intenti dell’artista, il tipo di materiali utilizzati (magari comunissimi), le scelte del curatore, il rapporto tra quadri, cornici, ambiente e visitatore e via dicendo, in un inseguirsi di corollari infinito e imprevedibile. Di seguito cito due passaggi della visita compiuta da Tumbleweed al museo The Cloisters di Manhattan – un’esposizione permanente di arte medievale europea di cui fanno parte cinque chiostri trecenteschi di chiese spagnole e francesi trasportati, restaurati e rimontati a New York – una visita che l’autore ha compiuto dopo aver ingerito 1,7 grammi di Psilocybe cyanescens (un dosaggio che si può definire pienamente psichedelico):

«L’uomo sulla croce, che era appeso al centro di questo intero coro gonfio di invocazione fragorosa e scrosciante, non significava molto per me. Di certo non l’ho visto come il mio salvatore. Semmai, l’ho percepito come un tragico esempio di ciò che spesso accade alle persone con convinzioni contrarie rispetto a quelle vigenti. Mi sono guardato intorno nella cappella e ho sentito il frastuono della storia: un uomo era morto su una croce e la fervida convinzione di alcuni che lo seguivano avrebbe cambiato il corso della storia.

Non è stata meno bella la seconda immersione, anche se non ho potuto recuperare la pienezza della mia prima reazione emotiva (peccato, dato che adoro un bel pianto). Irrecuperabile la risposta immediata del cuore, fu sostituita da un puro apprezzamento estetico della trama delle voci e del modo in cui ciascuna si univa, si completava e si intrecciava con le altre. Avevo una prospettiva più da “osservatore distaccato” sull’installazione. La stavo rivivendo con meno stupore e un orecchio più critico.

Contemplare l’arte museale sotto l’influsso della psichedelia può esporre a sbalzi di intensità in grado di agganciarsi in modo entropico allo stato alterato di chi osserva, portandolo in un territorio certamente fuori dal controllo delle intenzioni di chi ha predisposto lo spazio espositivo. Del resto è una questione centrale e aperta anche in ambito museale quella dell’allestimento, evolutasi nel corso dei decenni per permettere – nella maggior parte dei casi – una fruizione delle opere relativa alle esigenze dei tempi. Insomma, anche nel campo dell’allestimento museale è centrale l’organizzazione di luci, spazi, sequenze e didascalie con l’intenzione di ottenere determinati effetti, proprio come avviene nella gestione degli spazi e nella sequenza delle line up dei festival. Ciò non toglie che visitare un museo sotto gli effetti di sostanze psicotrope possa talvolta innescare epifanie notevoli. Queste tuttavia avverrebbero in modo incidentale perché a innescarle sarebbe l’onda che ha deciso di surfare in quel momento la coscienza scossa dall’LSD. Detto altrimenti: succederebbe per caso, invece ciò che muove i festival è la precisa volontà di ottenere un determinato effetto.

Simon Reynolds nel suo Energy Flash: A Journey Through Rave Music and Dance Culture racconta come sin dalla fine degli anni ’80 sia cominciata la selezione di stili musicali ed elementi d’arredamento per raffinare l’osmosi sensoriale nei partecipanti ai party:

«Opportunamente, l’arredamento degli eventi Goa trance è psicotropico (fatto di materiali fluorescenti, riflettenti e fosforescenti) e la musica è ornata e cinematica, piena di ritornelli sintetizzati, arpeggiati e turbinii di mandala del suono. Immaginate la musica New Age con un battito metronomico; l’Eurodisco di Giorgio Moroder intriso di promesse orientali e settato su un’ondata trascendentale, piuttosto che sul rapimento pornotopico stile Donna Summer. Parlando con la rivista DJ, il mago della console trance Goa Gil ha detto di aver comunicato una forma di “elevata trascendenza” ai giovani di Babilonia (ovvero ai consumatori occidentali, e capitalisti); riferendosi alla danza come a “una meditazione attiva”. Nonostante tutto il suo culto del mistico Oriente, dal punto di vista sonoro la Goa trance è marcatamente “bianca”. Tutta la creatività è spinta al massimo livello (per melodia e filigrana), mentre lo stesso non avviene nella sezione ritmica».

Come detto credo che i festival siano una grande Gestalt, sviluppatasi nel corso di perfezionamenti decennali, tesa a generare estasi; mentre ciò che li rende artistici è la combinazione volontaria di elementi che altrimenti sarebbero spesso perfino banali, pacchiani. Le feste sono un fenomeno sotto-culturale e globale evolutosi nel tempo, scartando le soluzioni meno convincenti e raffinando quelle più efficaci, a tutti i livelli, fin dalle prime iterazioni sulle spiagge di Goa, quando i dj iniziarono a eliminare le parti vocali dai loro mix per venire incontro alle esigenze psichedeliche dei festanti. Leggendo la descrizione del Dance Temple che si trova sul sito del Boom, si capisce quanto lo studio di ogni dettaglio sia intenzionale, ponderato e miri esplicitamente al raggiungimento di un certo effetto:

«L’arazzo del Dance Temple è intessuto in combinazioni geometriche infinite. I fili del suo sacro intreccio geometrico ne delineano la struttura d’insieme: un catalizzatore di spirali, e una serie di schemi pulsanti di colori, luci, energia e suono. È qui che la magia prende vita. Esplicitarlo significa comprendere l’esistenza di un universo veramente intelligente. Qui risuonano gli invisibili fili della vita: Fibonacci o il “Fiore della vita”, le sezioni auree o i solidi platonici, motivi orbitali o nuvole esagonali, forme organiche e decorazioni mozzafiato […]. Nel suo complesso, l’allestimento del Dance Temple è stato pensato per innescare una profonda esperienza trascendentale, invocata non solo dalle qualità degli artisti, da quella dell’insieme e dalla sua unicità – ma anche da set musicali più lunghi di quelli che di solito si trovano nella maggior parte degli altri eventi.

“Hypnotic” e “deeply meditative”, “dark” e “forest”, queste sono le vibrazioni che accompagneranno il misticismo della Luna fin quando i primi frammenti di luce porteranno i suoni che accompagnano l’alba. E poi, sotto il calore del Sole, sperimenteremo le proprietà luminose ed estatiche della psytrance, della full-on, della Goa trance “classica”, nei suoi nuovi adattamenti, e della progressive psytrance».

Ok, è una descrizione un po’ ingenua e dalle nuance molto new age, ma ci dà alcune indicazioni preziose. Vediamo per esempio come sin dal racconto che fa chi organizza queste feste la selezione dei materiali, la disposizione degli spazi, le location e le decorazioni fluo collaborino in modo organico col fine di esaltare l’avvitamento e la fusione di tre percorsi: quello musicale, quello notturno e quello della coscienza sotto LSD – che insieme concorrono a una catabasi collettiva. All’arco della volta celeste, che passa dal tramonto che si fa sera, poi notte stellata, quindi oscurità profonda, dunque alba e infine aurora, risponde il percorso che fa la coscienza amplificata, descritto con efficacia da Grof nel 1974 e articolato in quattro momenti fondamentali: la fase estetica (in cui dominano le visioni tipiche della distorsione sensoriale), la fase psicodinamica (in cui i ricordi del passato riemergono e vengono rielaborati), la fase perinatale (la più delicata, quella in cui si vivono esperienze di dolore, morte e rinascita) e la fase transpersonale (la più elevata, quella della vera e propria ego dissolution). Una traiettoria simile la compie la musica: i BPM si alzano sempre di più nel corso della notte, e il sound si fa sempre più brutalmente caotico. All’avvicinarsi dell’alba, si ha un’inversione, un rallentamento, si passa gradualmente a ritmi più rilassati che sembrano infine sciogliersi in un inno di invocazione allo spuntare della luce. L’andamento “a onda” (che del resto mima anche la parabola dell’esperienza psichedelica) è talmente codificato che a velocità e mood differenti corrispondono diversi sottogeneri di psytrance: forest/dark per il nadir notturno, progressive per la mattina, psychill, lenta e onirica, per la chillout, e molti altri.

La cura maniacale elaborata durante decenni nel perfezionamento di generi musicali differenti, adatti a particolari momenti (e ambienti) della festa, ha un corrispettivo nell’allestimento complessivo dello spazio che la ospita. Per capire quanto le strutture siano pensate organicamente al resto ho contattato Margherita Bertoli, che con l’associazione Canya Viva ha realizzato allestimenti in molti festival italiani ed europei. Canya Viva è un’associazione di biocostruzione che produce le sue strutture in canna mediterranea (Arundo donax) e bambù (Bambusoideae), due specie particolarmente utili come materiale da costruzione grazie alle loro potenzialità strutturali e alla loro reperibilità e rinnovabilità. «Alla base dei nostri allestimenti – mi ha detto Bertoli – c’è una ricerca che va avanti da più di dieci anni e mette in connessione differenti ambiti: il progetto nasce come unione fra esperienze di autocostruzione ecologica, sperimentazione artistica e creazione di reti sociali». I festival psytrance si sviluppano come un insieme coeso, in cui ogni dettaglio è pensato per dialogare in accordo con tutto il resto: «Nel momento in cui gli spazi che costruiamo vengono abitati dalla musica e dalla danza, si avverte con chiarezza una scintilla rituale, cerimoniale: l’allestimento diventa così una sorta di contro-luogo dotato di un linguaggio autonomo basato su rimembranze ancestrali, vibrazionali». E ancora: «È innegabile che le caratteristiche dello spazio in cui ci muoviamo influiscano sul nostro comportamento: la creazione di luoghi organici, naturali e caratterizzati dalla linea curva stimola stati interni legati all’associazione, all’universo essenziale analogico, creativo, musicale. È proprio su questa lunghezza d’onda che troviamo affinità con i festival psytrance e in generale con l’esplorazione e la celebrazione di quello stato di coscienza espansivo che sta alla base delle feste psy. L’esperienza estetica di uno spazio “attraversabile/abitabile” di questo tipo si compie attraverso una “logica sferica” che accoglie, avvolge, rigenera». Sul significato artistico del suo lavoro nel contesto complessivo dell’esperienza di un festival, Bertoli non ha dubbi: «Consideriamo lo spazio come organismo vivo, che nasce e cresce come opera d’arte collettiva, allestimenti e strutture riflettono la relazione fra il potere creativo della natura e quello dell’uomo, punto base di una coscienza ecologica viva e multidisciplinare. Con i festival psytrance troviamo una particolare affinità, dato che nel concept dei gathering l’attenzione alla sostenibilità e alla land art sono in prima linea».

L’esperienza dei festival infatti non si riduce a quella della musica e del main stage, è normale che durante eventi che durano fino a un’intera settimana, si abbia voglia di fare un giro – sarebbe ovvio anche senza bisogno di alterazioni ma lo è ancora di più in questo assetto. Viene voglia di allontanarsi dalla musica, dalla folla, di contemplare per un momento lo spettacolo della natura notturna, o magari quello di un casolare dove può essere allestito un bar (più o meno di fortuna), casolare la cui dimensione fisica così come quella delle persone che vi lavorano, si trasfigura catapultandovi nel bel mezzo di un quadro di Vermeer o di Rubens, all’interno del quale ci si può muovere, mentre l’equilibrio del cielo e la finezza con cui si percepiscono i moti impercettibili di infinite foglie di una distesa sconfinata di alberi sono quelli dell’universo di un Monet o di un Turner notturno, qui dotati di un nitore inconcepibile.

Cosa aggiungono a tutto questo dei teli colorati a motivi geometrici, un impianto di musica forsennata e una serie di dettagli fluo? Innanzitutto servono per definire dei landmark – quel manicomio di luci e musica è il tempio dove si celebra l’acme di questo baccanale del XXI secolo, mentre la psytrance e le installazioni dettano lo spazio e il tempo del sacro – volendo scomodare Eliade – organizzando il caos in esperienza armonica. Non è mai casuale ad esempio l’orientamento del palco, spesso sistemato in modo da sottolineare i sublimi spettacoli offerti dalle orbite del sole e della luna. Capita di contemplare delle vere finezze in questo senso, talvolta si può scorgere un’enorme falce di luna spuntare alle spalle della plancia del dj in posizione leggermente asimmetrica (più frequentemente i dance floor vengono orientati in base alla posizione del sole). L’effetto del sublime sprigionato dalle forze naturali è del resto attentamente studiato nei festival, essendo parte integrante del racconto, o per meglio dire dell’evento mistico-artistico di cui ci si trova a far parte. Tuttavia, la musica continuativa, le vistose console allestite per i dj, i teli con i mandala e i videomapping proiettati sulle impalcature del palco, senza la psichedelia non sarebbero altro che ingredienti più o meno dozzinali. Non è sempre vero, come detto: i mandala dipinti sulla volta delle tensostrutture o i motivi geometrici proiettati in videomapping, combinati con quelli impressi su alcuni di questi palchi, producono talvolta raffinatissimi insiemi di Mandelbrot. Tuttavia l’elemento affascinante è che in molti casi si tratta di paccottiglia dall’apparenza piuttosto ingenua, scelta però con la consapevolezza che illuminata in un certo modo, di notte, offrirà degli effetti gradevoli e aderenti all’esperienza lisergica – piccoli frattali in vitro, potremmo dire – col vantaggio di non richiedere alcun impegno interpretativo (sono solo motivi geometrici) e in grado di alludere inoltre a una questione interessante proprio riguardo all’arte per stati alterati, o volendo per alieni (essendo la psytrance, simbolicamente, uno strumento pensato anche come ironica invocazione degli extraterrestri). Tuttavia è interessante indagare anche come i dettagli dal sapore, diciamolo pure, fricchettone, siano frutto di un’attenta selezione, calibrata per sprigionare effetti precisi. In Boom Festival 20 Years, una pubblicazione con cui il noto festival portoghese ha celebrato il suo ventennale, l’art director Carey Thompson racconta come sia stato progettato e realizzato l’elemento decorativo centrale dell’edizione del 2012, un enorme drago con le sembianze del serpente Quetzalcòatl:

«Avevo appena iniziato il mio lavoro di art director e quello fu il primo assaggio che ho avuto circa la realizzazione sinergica di progetti artistici che necessitano di un livello di collaborazione orchestrale. Nella mia visione originaria quell’anno sopra il Dance Temple avrebbero dovuto volteggiare i draghi del serpente Quetzalcòatl. Ho dovuto mettere insieme la squadra migliore possibile per realizzare quest’idea. Avevo lavorato con un paio di team di decoratori che avevano fatto cose del genere per farmi un’idea concreta di come riuscire a creare gli enormi serpenti piumati che avevo in mente. Tuttavia niente mi sembrava adatto e mi sentivo piuttosto nervoso per come stava andando. Il design del palcoscenico era pronto, e con Xavi stavamo lavorando a quello del pilastro centrale, ma non sapevamo ancora chi avrebbe realizzato i serpenti. In quel periodo mi ritrovai nella Chinatown di San Francisco, e passeggiando notai in un negozio un modello di uno dei burattini del drago usati per le sfilate delle feste cinesi.

Mi fece capire immediatamente come procedere. Era necessario che avessero un corpo solido, fatto di un tessuto teso ancorato a dei cerchi, con una testa decorata. Credo fermamente che è da questi coraggiosi balzi di fede che uno spirito veramente magico viene liberato e condiviso attraverso l’arte. Attraverso queste esperienze, ho davvero imparato il potere e il potenziale della collaborazione e la magica sinergia che può far sì che i creatori si uniscano per una visione comune».

Indagando su che tipo di lavoro ci sia dietro la realizzazione dei festival non ho dubbi sul fatto che sia lecito considerarli articolate e poliedriche forme artistiche collettive, in cui la somma delle parti è in grado di travalicare decisamente il potenziale dei singoli elementi. Tutto questo non mi fa dimenticare che i vertici di bellezza sprigionati da un’esperienza lisergica soverchiano affidabilmente le più alte creazioni artistiche, spingendo alla contemplazione del sublime in natura: come suggerisce Aldous Huxley basta prendere l’LSD in un prato alpino per contemplare il miracolo della creazione nel calice di un fiore di genziana (o in un garofano di montagna). O anche nella nuvola di latte di in una tazza di chai, ammirata alle quattro di notte ai banchini del micro-villaggio allestito non lontano dal dance floor. La trovata straordinaria di questi festival è stata infatti proprio quella di mettere a sistema la psichedelia, facendola lavorare in sinergia con una Gestalt, dunque a chi ancora chiedesse se un fenomeno sottoculturale collettivo che genera stati di estasi in serie può definirsi arte, io rispondo di sì.